Avvolte da una calda serata estiva, rimbalzate da pietre millenarie, sparse in una piazza aperta, che per impianto sembra abbracciare il passante, le parole di Silvestro Montanaro dirette, chiare, franche mai scontate hanno rapito per qualche ora l’attenzione vigile di chi ha scelto di esserci, distratta di chi è passato per caso, volatile di chi era lì per altro.
Si è fermata, imprimendosi in profondità nell’animo, forse, anche solo un’immagine, una battuta, un riferimento del video su Thomas Sankara o le dolorose e graffianti parole sulle storie di “Col cuore coperto di neve” o i nomi dei responsabili di chi si ostina a spremere questo pianeta per profitto e soldi calpestando, sgualcendo, umiliando quello a cui ogni essere umano in realtà aspira: la felicità.
Nel bene e nel male l’Africa va osservata per capire le dinamiche che guidano il mondo: le crisi, le guerre, l’economia, i cambiamenti climatici, la produzione agricola, l’industria alimentare, lo sviluppo tecnologico… Non esiste argomento che in un modo o nell’altro non coinvolga l’Africa così come non esiste argomento, legato all’Africa, che non abbia una conseguenza o uno sviluppo nel resto del mondo.
Ridurre l’Africa al fenomeno migratorio è ridurre la vita di un uomo alla sua nascita, senza considerarne la formazione attraverso l’esperienza, gli errori, i progressi, le fatiche, le emozioni, i sentimenti che ne hanno plasmato il carattere e affinato le capacità.
Pensare di poter fingere di non essere interessato a questo argomento è girare la testa davanti ad un fuoco che avanza, pensando di poter fermare, con l’aria mossa da quel movimento, la sua avanzata e salvare la casa.
L’analisi che è stata offerta ha aperto mille possibili approfondimenti, voglia di sapere di più, certezza di non essere abbastanza informati. Gli argomenti trattati hanno permesso di avere un altro punto di vista, innanzitutto, basato sull’umanità. Riflettere sulla condizione nostra e di coloro che additiamo senza prima fare domande, senza provare a vivere per un secondo la loro vita.
Perché non provare ad interrogarci vicendevolmente per capire le nostre e le loro paure, i nostri e i loro bisogni e i sogni e le speranze e per arrivare finalmente ad eliminare quei “nostri” e quei “loro” e renderci conto che esiste solo un “noi, esseri umani”.
In qualsiasi parte del mondo ci è dato nascere, la vita è la stessa per tutti, è un ciclo, ha delle fasi, ha delle necessità ed un’unica speranza uguale per tutti: la felicità.
Perché per raggiungere quella che crediamo essere la felicità, fatta di cose materiali, di consumismo, di spreco, vogliamo privare qualcun’altro dell’essenza della vera felicità?
Sappiamo realmente essere felici?
Possiamo realmente essere felici fingendo di non sapere di essere coinvolti e responsabili, anche solo per colpa della nostra indifferenza, della infelicità, della sofferenza, della morte di un altro essere umano, anche fosse quella di uno soltanto?
Quel cerchio di musica che ha unito “noi” e “loro” a fine serata, quell’energia che si è sprigionata nel ritmo, nei passi di quella danza viscerale che trasudava di essenza vitale e mostrava la forza del legame dell’uomo con la terra e non solo con un Paese, quelle mani, tra loro straniere ma in quell’istante scoperte amiche, che colpivano all’unisono la pelle dei tamburi e quei suoni che riecheggiavano nell’antica piazza… emanando rabbia, gioia, speranza… hanno chiuso il cerchio e creato un’unica armonia: l’umanità!
Livia Trigona